Leo Pugliese – E così è successo, ancora una volta: l’ultimo atto di quella tragicommedia che abbiamo chiamato anno. Il sipario si è alzato, le luci si sono accese, e in scena è andato lo spettacolo più triste di tutti: il Cenone di Capodanno. Una pantomima di lusso, un carnevale di eccessi, un banchetto che ha saputo di plastica e disperazione. Un rituale ormai svuotato di ogni autentico significato, in cui ci siamo ingozzati non per fame, ma per noia, per inerzia, per paura di non partecipare al grande gioco collettivo della felicità obbligatoria.
Eppure, c’è stato chi ha difeso questa parodia di festa, come se fosse stato un dovere morale, un tributo da versare alla società dell’apparenza. Abbiamo prenotato con mesi di anticipo, pagato cifre esorbitanti per una sedia in una sala affollata, accettato un menù fisso che è stato un insulto al libero arbitrio. Abbiamo mangiato non ciò che desideravamo, ma ciò che ci è stato imposto, come se il cenone fosse stata una messa laica, con il maître nei panni di un sacerdote che ha distribuito ostie sotto forma di cotechini e lenticchie.
E poi è arrivato il momento clou, il brindisi di mezzanotte. Non è importato dove fossimo, cosa stessimo facendo, con chi fossimo: a quell’ora, ci siamo alzati, abbiamo riempito i bicchieri con spumante scadente e abbiamo finto un entusiasmo che non provavamo. È stata la televisione a comandare, con il suo countdown chirurgico, scandendo il passaggio dall’anno vecchio a quello nuovo come l’orologio di un boia che ha chiuso il sipario su un condannato.
E così abbiamo brindato, sorriso, ci siamo scambiati baci e abbracci, come se davvero il cambio del calendario fosse stato un evento cosmico, un portale magico verso una vita migliore. Ma sapevamo già che sarebbe stata solo un’illusione, che il giorno dopo saremmo stati gli stessi di sempre, con gli stessi problemi, le stesse frustrazioni, lo stesso vuoto.
E vogliamo parlare del cibo? Ah, il cibo! Quel banchetto che avrebbe dovuto rappresentare il trionfo del gusto e della convivialità si è rivelato un circo di piatti pretenziosi e insapori. I nomi sul menù sono sembrati usciti da un romanzo di fantascienza: “millefoglie di mare su letto di vellutata”, “sinfonia di crostacei con riduzione di non-si-sa-cosa”. Ma quando i piatti sono arrivati, ci siamo accorti che era tutto fumo e niente sostanza, un’illusione culinaria che ha lasciato più vuoti lo stomaco che l’anima.
E il conto, ah, il conto! Una cifra da capogiro per un’esperienza che non abbiamo ricordato nemmeno il giorno dopo. Ma non è importato, perché l’importante è stato esserci stati, poter dire “anch’io ho fatto il cenone”, come se fosse stato un trofeo da esibire sui social.
E dopo il cenone, c’è stato l’altro grande rito: gli auguri. Una pioggia di messaggi copia-incolla, una marea di “buon anno!” inviati e ricevuti senza alcun sentimento. È stata una gara di popolarità, una corsa a chi è riuscito a riempire di più la propria casella di messaggi. Ma quegli auguri non sono stati altro che monete false, scambiate in un mercato di relazioni superficiali.
Abbiamo risposto a tutti, anche a quelle persone che non vedevamo da anni, che non ci interessavano, che non avremmo nemmeno riconosciuto per strada. Perché? Perché è quello che si fa, perché non rispondere sarebbe stato un reato di lesa maestà nel tribunale della società digitale.
Eppure, avremmo potuto fare diversamente. Avremmo potuto spegnere il rumore, scendere dal palco e scegliere di non recitare. Immaginate se avessimo vissuto un Capodanno diverso, senza brindisi forzati, senza cene interminabili, senza messaggi di circostanza. Una serata di silenzio, di riflessione, di autenticità.
Al posto di abbuffarci, avremmo potuto preparare un pasto semplice, quasi ascetico, per alleggerire non solo lo stomaco ma anche la mente. Al posto di riempire la serata di rumore, avremmo potuto ascoltare una musica che accompagnasse i pensieri invece di soffocarli. Al posto di un brindisi, avremmo potuto farci una domanda: “Cosa voglio davvero dal nuovo anno?”
Saremmo potuti uscire, quando il caos si fosse placato, e camminare nella notte deserta. Guardare il cielo, respirare l’aria fredda, ascoltare il silenzio. Non sarebbe stato un gesto rivoluzionario, ma sarebbe stato un gesto vero, che ci avrebbe riportato a noi stessi.
Invece, il Capodanno, così come lo abbiamo conosciuto, non è stato una festa: è stato un inganno, un rito vuoto che ci ha tenuti prigionieri di una società che ci vuole sempre felici, sempre in festa, sempre altrove. Ma la felicità non si è trovata in una sala affollata, né in un calice di spumante, né in un messaggio inviato a mezzanotte.
La felicità, se è esistita, è stata nel silenzio, nella verità, nell’autenticità. E magari, per una volta, avremmo potuto scegliere di non farci ingannare, di non partecipare a quella farsa collettiva. Perché il Capodanno non è stato un inizio, né una fine: è stato solo un giorno come un altro, il cui senso è dipeso solo da noi.