Leo Pugliese – Viviamo in un’epoca in cui il tempo non scorre più: si ferma, intrappolato nel rettangolo di una fotografia. Ogni momento viene rubato alla vita e consegnato alla prigione di una memoria artificiale. Non si vive più per sentire, ma per mostrare. Ogni sorriso, ogni tramonto, ogni piatto di cibo viene sacrificato sull’altare delle apparenze, come se l’esistenza non avesse valore senza il giudizio degli altri. Siamo diventati collezionisti di immagini, ma poveri di emozioni; archivisti del nulla, incapaci di abitare davvero il presente.
Il cellulare è la nuova divinità, un idolo di vetro e metallo che ci ordina di inginocchiarci davanti alla sua fotocamera. Ogni click è una preghiera, ogni post un sacrificio. E così, ci illudiamo di catturare la vita, ma in realtà siamo noi i prigionieri. L’obiettivo del telefono guarda il mondo come un occhio vuoto, indifferente. Non vede, registra. Non sente, archivia. E noi, ciechi nella nostra ossessione, ci affidiamo a questo occhio morto per dimostrare che siamo vivi.
Ci troviamo a un concerto, in mezzo a un mare di gente, con la musica che ci sfiora il cuore. Il cantante sussurra parole che potrebbero far tremare l’anima, ma le nostre mani sono occupate a tenere il telefono in alto, come una lanterna che illumina il buio della nostra insicurezza. Non ascoltiamo più; il suono perde la sua magia, trasformato in un video che nessuno guarderà mai davvero. La musica, quella vera, muore lì, soffocata dal nostro bisogno di dimostrare che c’eravamo.
E poi ci sono i viaggi. Quei luoghi lontani che dovrebbero riempirci di meraviglia diventano set fotografici. Una spiaggia al tramonto non è più un dipinto di luce e silenzio, ma uno sfondo per i nostri piedi nella sabbia. Un piatto esotico non è più un sapore da ricordare, ma un’immagine sovraesposta su Instagram. Camminiamo tra rovine antiche che raccontano storie di secoli, ma non ascoltiamo le loro voci: siamo troppo impegnati a scattare, a posare, a immortalare. E così, ciò che dovrebbe essere eterno diventa effimero, ridotto a pochi pixel destinati a perdersi nel flusso infinito del web.
Ma il culmine di questa ossessione arriva quando la morte stessa diventa uno spettacolo. I funerali, un tempo luoghi di dolore e raccoglimento, si trasformano in palcoscenici. Una bara coperta di fiori diventa un’immagine da condividere, un post per raccogliere cuori e commenti. La tragedia si svuota di significato, ridotta a un’altra occasione per farci notare. Anche la morte, l’ultimo baluardo della nostra umanità, viene consumata e digerita dal nostro narcisismo.
Che cosa stiamo cercando di dimostrare? Che cosa ci spinge a sacrificare la vita sull’altare dell’immagine? Forse è la paura di essere dimenticati, di sparire come granelli di sabbia nel vento. Ma è ironico: nel tentativo di fissare ogni momento, finiamo per perderlo. Il presente ci sfugge, scivola tra le dita mentre siamo troppo occupati a guardarlo attraverso uno schermo. Viviamo come fantasmi, sospesi tra ciò che accade e ciò che mostriamo.
Eppure, la vita vera non si lascia catturare. Non si piega a una foto, non si lascia imprigionare in un video. La vita è un respiro, un battito, un istante che non tornerà mai più. È la risata che esplode senza preavviso, è il profumo di un fiore che sfiorisce, è il calore del sole sulla pelle. È tutto ciò che non possiamo fermare, non possiamo postare, non possiamo salvare.
Forse, un giorno, ci sveglieremo. Forse, un giorno, abbasseremo il telefono e alzeremo lo sguardo. Forse torneremo a vivere davvero, senza preoccuparci di dimostrarlo. Forse capiremo che l’esistenza non ha bisogno di testimoni, ma solo di essere vissuta. Ma fino a quel giorno, continueremo a fotografare il vuoto, sperando che ci restituisca un frammento di ciò che abbiamo perso.